L’istinto del linguaggio: dal saggio di Pinker una visione scientifica delle questioni sociolinguistiche

Ho recentemente avuto modo di rileggere l’avvincente libro “L’istinto del linguaggio” di Steven Pinker.

istinto del linguaggio

E’ un concentrato di idee potenti e salde dal punto di vista teorico corredate da gustose esemplificazioni. Lo humour che condisce il saggio è ebraico-newyorkese “alla Woody Allen”.

Si tratta di un’opera che fa esclamare: “Già, è proprio così!” in molti suoi punti. Inoltre disintegra alcuni falsi miti spacciati per certezze nel gossip delle scienze sociali.

L’istinto del linguaggio è innato, le lingue sono apprese

Base della costruzione pinkeriana è l’idea di Noam Chomsky relativa al linguaggio come facoltà innata e strutturata dell’uomo moderno.

Non esiste uno spazio vuoto nel cervello che viene riempito con gli stimoli linguistici provenienti dall’ambiente.

Al contrario vi è una struttura semplice, ma potente che organizza i suggerimenti esterni secondo uno schema universale.

Il linguaggio non è un artefatto culturale, ma un istinto, una facoltà innata ad apprendere un’arte comunicativa.

Da questo concetto di base si sviluppano altre idee cardine tra cui scelgo liberamente quelle attinenti agli argomenti di questo blog.

Tutte le lingue si assomigliano, tutte sono allo stesso livello

Un primo effetto è che la struttura innata della mente (come viene sviluppata sotto la spinta del patrimonio genetico in un individuo sano psichicamente) costringe ad organizzare il linguaggio in forme standardizzate uguali in tutte le lingue del mondo.

Sostantivi, verbi, aggettivi & Co. sotto le differenze di facciata hanno sostanzialmente le stesse funzioni ovunque.

Le costruzioni culturali, come le invenzioni tecniche, variano enormemente nel globo. Ciò rende possibile distinguere diversi tipi di civilizzazione (caccia e raccolta, agricoltura e pastorizia, società stratificate) con prodotti culturali diversissimi (dalla pietra scheggiata alla sonda interplanetaria).

Nulla di tutto ciò è presente in campo linguistico. Le lingue di tutto il mondo sono infatti strutture potenti e complesse, non esistono abbozzi di grammatica, mezzi sostantivi, falsi verbi ecc.

Non esiste alcuna correlazione tra lo stadio di civilizzazione di un popolo e la completezza del suo idioma. Esso sarà sempre perfettamente utilizzabile per tutti gli usi richiesti.

Ciò significa pari dignità per tutte le parlate ovunque esse siano situate nella scala sociale.

Per stare in Piemonte tra italiano e piemontese, ligure e lombardo, provenzale e francoprovenzale, walser ed ebraico-piemontese e perfino (il vocabolo è volutamente ironico) le parlate “zingare” del nostro territorio.

Il pensiero è diverso dal linguaggio

Un’altra idea che viene spazzata via è che noi pensiamo in una lingua specifica. In realtà esiste un mentalese composto da immagini e concetti non verbalizzati.

Per ovvie ragioni legate alla comunicazione tra individui il mentalese viene costantemente tradotto in una lingua naturale.

Persone che non hanno appreso una lingua (neonati e bimbi piccoli, sordi, alcuni tipi di malati) possono correttamente ragionare senza l’ausilio della conoscenza di un linguaggio.

La lingua non impone di pensare in un determinato modo

Ne deriva un concetto politicamente scorretto, ma estremamente egualitario: non esistono lingue diversamente abili, strutturalmente incapaci di esprimere qualche concetto.

E’ chiaro che una lingua parlata in un deserto avrà delle carenze a descrivere neve e valanghe, ma solo in quanto è il concetto stesso ad essere sconosciuto in quell’ambiente, una volta introdotto…no problem.

A questo si lega la distruzione del mito della lingua che plasmerebbe il pensiero consentendo certi pensieri ed impedendone altri: a certi popoli sarebbero vietate alcune idee in quanto non esprimibili nella propria lingua.

Coraggio, piemontesi: nessuno vi impedisce di pensare al babà al rhum o alle orecchiette con la rucola…

Apprendere una lingua nei primi anni è istintivo, dopo no

Una parte del libro che ho trovato interessantissima e molto confortante è legata alle finestre temporali nell’apprendimento di una lingua.

I bimbi fino intorno ai quattro anni possiedono un “kit” molto flessibile per imparare un idioma.

Hanno, ad esempio, la capacità di organizzare fluentemente un discorso in una lingua che hanno sentito solo da insegnanti che non la padroneggiano affatto.

Questo vero miracolo è sempre legato all’istinto del linguaggio innato che fornisce al bimbo delle tecniche di autocorrezione, anche in presenza di adulti malparlanti.

Questa è la risposta definitiva alla diffusissima obiezione: “Io non insegno il dialetto a mio figlio, tanto lo parlo già male io”.

Più tristi sono le valutazioni sul periodo post quattro anni. Infatti quel magico kit per l’apprendimento di un idioma a livello madrelingua semplicemente scompare. Ciò che avviene dopo è un normale apprendimento di lingua straniera!

Da qui deriva lo scarso effetto pratico della battaglia culturalmente sacrosanta dell’insegnamento del”dialetto” nelle scuole. Alla luce della moderna psicolinguistica andrebbe aggiornata con una ben più efficace lotta per il piemontese negli asili e nei nidi.

Una curiosità linguistica personale

Sento il piemontese dalla nascita perché tutti in famiglia lo parlavano tranne che con me. Ritengo di comprenderlo a livello di madrelingua, ma ho sempre utilizzato come unica lingua l’italiano.

Non sono mai stato in condizione di dover parlare in dialetto. Quando ci provo (sono già piuttosto oltre il limite dei quattro anni di età…) rischio sempre di avere un’interferenza addirittura con l’inglese.

Evidentemente utilizzo qualche circuito neuronale in cui allegramente convivono tutte le “lingue straniere” apprese nel tempo.

Cerea. Bye.

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